ESCLUSIVA PSB – Parla Mattioli: il sogno diventato realtà, le parentesi in B della SPAL e i calciatori nel cuore
L'ex - storico - presidente della SPAL in esclusiva ai nostri microfoni
È difficile, per lunghezza del percorso e intensità del sentimento, trovare nel calcio italiano dei nostri giorni un legame più solido e sempiterno di quello tra Walter Mattioli e la SPAL, società cui ha dato una vitale resurrezione grazie alla fusione con sua Giacomense datata 2013. Un manifesto d’amore, quello dell’ex Presidente, che alla lettera maiuscola da riconoscergli ha abbinato le tribolazioni del sudore da versare, le meningi da sottoporre a sforzo reiterato, così come le lacrime che ne hanno bagnato tanto le gioie quanto i dolori. Bruco, quello estense, che si è dischiuso e ha spiccato il volo diventando farfalla, incantando l’intera penisola con il fascino del proprio progetto. Luglio 2021, epilogo della storia sui documenti ma non nel cuore della gente e nella storia del club, è unicamente una tappa su una linea del tempo che mai, indicazione temporale doverosa, detterà qualcosa di diverso dalla naturale associazione tra Mattioli e la sua creatura. Intervenuto in esclusiva ai nostri microfoni, sono stati diversi, ognuno riempito di competenza e sentimenti, i temi trattati.
“Dal Sogno alla Realtà” è il titolo del libro che ha scritto assieme a Enrico Menegatti. Un prodotto editoriale con una funzione molto più ampia ed estesa: quella di dare eternità alle sue memorie. Cos’ha significato per lei ripercorrere un viaggio così lungo, intenso e prolifico?
“Quando salimmo in Serie A venne un altro giornalista a propormi di scrivere un libro, ma gli dissi di non avere tempo, tra l’altro sarebbe stato un racconto unicamente concentrato sugli anni della SPAL, mentre io volevo assolutamente raccontare la mia storia sin da ragazzo, mettendo nero su bianco le prime esperienze nel mondo del calcio, per poi arrivare alla Giacomense, cui ho dedicato diciotto anni da calciatore, due da direttore sportivo e venticinque da presidente, dalla Terza Categoria alla Serie C2, dove siamo rimasti per cinque stagioni. Nessuno aveva mai scritto nulla di quest’avventura, a mio avviso importante. Enrico mi ha proposto di redigere un elaborato in merito, e ho accettato così da dare trasposizione editoriale al sogno che avevo. Eravamo, come poc’anzi detto, in Terza Categoria, e cercavo di far capire ai miei consoci come fosse possibile migliorare per salire di qualche categoria. Nessuno pensava di fare un percorso simile: arrivare in C2 con un Paese di 7-800 abitanti e restarci cinque anni senza mai retrocedere rappresentata una ciclopica vittoria per noi, per quello che era il Paese più piccolo d’Italia arrivato tra i pro. Nel libro racconto tanti aneddoti, tra cui quello in merito al primo incontro – che ebbe luogo in quel di Firenze – con la Lega di Serie C: era sera e fui accolto dall’allora presidente Mario Macalli con un discorso molto particolare: mi chiesa cosa fossi andato a fare tra i professionisti senza stadio né strutture, invitandomi dunque a rimanere tra i Dilettanti. Le cose sono andate diversamente, tra l’altro con una rosa giovane, italiana, che portò un bel po’ di soldini grazie al minutaggio. Fu una grandissima esperienza, che nel 2013 fu seguita dalla proposta del sindaco di Ferrara, stanco di tante situazioni che non condivideva, che ci chiese di andare a Ferrara per fare questa specie di fusione tra Giacomense e SPAL, che era in Serie D e faticava a iscriversi. Lì è nata la nostra seconda storia, un altro grandissimo capitolo con una tifoseria desiderosa di cose vere, nuove e passionali. Abbiamo fatto qualcosa di impensabile, e dopo la Lega Pro unica il lavoro è stato ancora più intenso, così da portarci prima in B, poi nella massima serie, che mancava da 49 anni. Ho raggiunto un sogno, con lo stesso numero di matricola, il 71608 della Giacomense, che ha conosciuto anche la Serie A”.
Il suo nome è legato alla SPAL da un filo che il tempo non assottiglierà né tantomeno spezzerà. Sarebbero tanti i punti da toccare, ma potremmo innanzitutto soffermarci sulla portentosa cavalcata nell’annata 2016-2017, che all’euforia per il ritorno in B (la SPAL mancava in cadetteria dal 92/93, ndr) abbinò la fragorosa gioia per un’incredibile promozione nella massima serie. Fu davvero, quella stagione, un passaggio più o meno consapevole da un sogno alla realtà, oppure lei aveva la sensazione di poter competere in quella maniera?
“Sono una persona molto umile, ma mi concedo di peccarne per argomentare: in quei precisi anni, nel corso dei quali abbiamo costruito il gruppo, avevo la netta sensazione che fosse la squadra giusta per tentare di affrontare dei campionati di un certo tipo, sia per il gioco espresso che per il lavoro presente alla base. Era un gruppo di amici, caratterizzato da calciatori giovani e di grande talento: Bonifazi, Meret, lo stesso Lazzari, che avevo già preso alla Giacomense. Giocatori di tenerissima età accompagnati da elementi esperti come Antenucci e Schiattarella, che avevano ancora tanto da dare ed erano determinati. Erano sempre insieme, ciò generava in me la percezione di poter tentare qualcosa di importante, il tutto guidato da un allenatore bravo come Leonardo Semplici, che diede alla SPAL un’identità tattica particolare e accettata dal gruppo, passaggio fondamentale. Avevo, ribadisco, la sensazione che avremmo fatto qualcosa di rimarcabile. In questi giorni stiamo girando tanto per la presentazione del libro, e in ognuna di esse dico sempre di ricordare che non esistono vittorie derivanti dal singolo: abbiamo trovato una grande proprietà, che si è messa a disposizione, così come dei dirigenti che hanno lavorato sodo, perché noi avevamo già in quegli anni una grandissima organizzazione per fare in modo che ai nostri giocatori non mancasse nulla. L’entusiasmo generato dalle prestazioni dei ragazzi in campo aveva trascinato tutta la tifoseria ferrarese, che da anni aspettava una squadra che giocasse in quella maniera. È stata un’onda che, domenica dopo domenica, ha trascinato ovunque la SPAL. I ragazzi davano sempre il massimo perché avevano al proprio fianco tantissimi tifosi, sia in casa che fuori. Percepivo, dunque, la possibilità di concepire grandi cose. Venni ammonito da parte di qualcuno che mi diceva di non azzardare, ma stavo vedendo frutti encomiabili e particolari, che hanno dunque accresciuto la sensazione di poter assistere a un mezzo miracolo sportivo. Era l’insieme a fare la differenza: ho sempre cercato di creare una famiglia sportiva, in cui mettere tutti nelle condizioni di dare qualcosa, come poi accaduto tranne che per qualcuno non inseritosi dentro tale filosofia. Calciatori, impiegati e dirigenti diventavano tifosi del proprio club: alcuni giocatori hanno acquistato casa a Ferrara, per ricalcare ulteriormente ciò che ha rappresentato questa grande famiglia”.
Qualche anno dopo – siamo nel 2020/2021 – la SPAL è nuovamente in cadetteria, in quella che fu una stagione compromessa dagli effetti della pandemia, che portò a dover giocare dal sesto turno in poi senza tifosi. Era un gruppo decisamente diverso, dato che fu necessario ricostruire le fondamenta a seguito della retrocessione dell’annata precedente. A detta di chi scrive, il campionato fu comunque positivo, perché mancaste i playoff unicamente per scontri diretti e differenza reti con Brescia e Chievo. Come commenta quel percorso?
“Il terzo anno di Serie A partimmo con dei problemi dovuti al sequestro dello stadio, che fu detto non essere stato costruito a norma: una mazzata importantissima per noi. Dovemmo bloccare gli abbonamenti e rivedere tante cose. Fu una stagione veramente particolare e, per noi, disgraziata. La retrocessione aveva portato malessere e dispiacere, eravamo tutti convinti di poter mantenere la categoria, dunque quell’epilogo fece molto male. Assorbito ciò, maturammo l’idea di avere una squadra decisamente competitiva: volevo assolutamente tornare in Serie A, perché avevo notato osservando altri casi le difficoltà a seguito di una mancata promozione al primo tentativo. Alla fine del girone d’andata eravamo assolutamente proiettati verso la realizzazione dell’obiettivo, grazie al secondo posto occupato con mister Marino. C’erano calciatori importanti: Berisha, Vicari, Floccari, elementi decisamente di lusso per la categoria. Dissi ai ragazzi di battere ancora quella strada, il tecnico mi chiese un paio di calciatori che purtroppo non riuscì a consegnarli a causa della pandemia che, come concordato con la proprietà, non ci consentii determinate manovre complici le ingenti problematiche da affrontare. Mi fu chiesto di non esagerare con gli investimenti di gennaio. La rosa restava buona anche senza gli ingressi immaginati e appena analizzati, ma il ritorno fu al di sotto delle aspettative: non partimmo bene, dinamica che sorprese sia me che i dirigenti. Al triplice fischio della regular season arrivammo noni, i playoff – che precedentemente chiesi alla squadra di raggiungere perché sarebbe comunque stato un ottimo risultato, date le difficoltà del campionato di Serie B – sfumarono per un nonnulla dettato dalla vittoria del Brescia a Monza, che generò una differenza reti per noi fatale. Ci rimasi molto male, stato condiviso con la proprietà, la dirigenza e i ragazzi, perché venne a cadere l’obiettivo prefissatoci. Non so cosa ci avrebbero portato i playoff, ma era un traguardo assolutamente da centrare. Ad ogni modo, sembrò tutto sbagliato, ma ci tengo a precisare che un nono posto in Serie B resta un risultato importantissimo. Le aspettative con cui partimmo ci fecero stare male”.
La sua ultima SPAL è stata quella che ha permesso a talenti come Salvatore Esposito di consacrarsi. Il classe 2000 è considerabile un suo figlioccio calcistico, dato che lei ha avuto una visione su di lui probabilmente mancata all’Inter. Ora allo Spezia, che opinione ha di questo ragazzo?
“Salvatore è un ragazzo esuberante, sempre allegro e con delle grandi doti. Ha notevole talento: Ruggero Ludergnani, mio ex direttore del settore giovanile, oggi al Torino, mi disse di questo calciatore datoci dall’Inter, che con noi fece la Primavera per poi andare a Ravenna e Verona, dove disputò un campionato molto importante con il Chievo. Una volta rientrato, dissi di puntarci, perché in lui notai le doti per diventare un ottimo calciatore. Quell’anno, oltre che giocare bene, fece diversi gol: è uno di quei ragazzi che, secondo me, la famiglia SPAL ha messo nelle condizioni giuste per permettergli di esprimersi al meglio. Di lui ho un bellissimo ricordo, inoltre menziono anche il fratello Sebastiano, che ci raggiunse nella stessa annata proprio dall’Inter. Sono sincero: lavorare con questi ragazzi mi entusiasma. I calciatori esperti danno sicurezza ed esperienza, ma i giovani sono sempre stati una mia prerogativa”.
Nonostante le quattro stagioni con il Novara, è probabilmente con la SPAL che Francesco Vicari ha raggiunto il proprio picco in termini di prestazioni e visibilità. Le chiedo un commento anche su questo ragazzo, oggi colonna del Bari.
“Era per l’appunto al Novara, dove non era un titolare fisso. Vagnati me lo segnalò e mi parlò delle sue qualità, dunque lo portammo a Ferrara e gli consentimmo di crescere, non a caso una volta entrato in campo non è più uscito. Francesco è un po’ timido ma è un giocatore che in campo si fa sentire, non solo per la sua bravura ma anche per la presenza che lo contraddistingue, come certificato dai vari gol che ha messo a segno, specialmente sugli sviluppi di calci piazzati. È diventato prima leader, poi Capitano, ha decisamente lasciato il segno ed è uno di quei ragazzi che porto nel cuore e mai dimenticherò”.
La più inevitabile delle conclusioni: cosa rappresenta, per Walter Mattioli, la SPAL?
“Non si può parlare di un rapporto professionale, è qualcosa di diverso. Sono innamorato di Ferrara, che è la mia città, e della SPAL, una seconda famiglia con la stessa importanza della prima. In otto anni non sono mai mancato un giorno, avevo dentro di me un’adrenalina talmente alta da non permettere che mi ammalassi. Per me non era un lavoro ma una missione, riportare la SPAL in determinati contesti. Quando siamo arrivati a Ferrara lo stadio era carente e il centro sportivo in condizioni pietose. Siamo stati giornate intere a lavorare per sistemare tutto ciò, così da dare al settore giovanile e alla prima squadra campi e spogliatoi senza alcuna controindicazione. Partendo dalla Giacomense abbiamo ampliato il bacino del nostro vivaio, composto inizialmente da una sessantina di ragazzi poi diventati 420 maschietti e 100 femminucce quando sono andato via, tra l’altro ricordo la Serie C conquistata dalla prima squadra femminile. È stato un percorso importante, faticoso, ma era quello che dovevo fare per la mia famiglia. Non mi vedo, oggi, dirigente di un’altra società: non potrei indossare un’altra sciarpa. Porto dentro un grande amore per questi colori, faccio quasi fatica a raccontarlo. Non è passione per il calcio, è una malattia”.