Virtus Entella, Boscaglia: “L’obiettivo resta la salvezza, ma dobbiamo spostare i nostri limiti”
BOSCAGLIA VIRTUS ENTELLA – Interessante intervista quella rilasciata da Roberto Boscaglia, tecnico della Virtus Entella, ai microfoni della Gazzetta dello Sport: “Due vittorie su due? Fortunati (ride, ndr). Vabbè, diciamo che abbiamo avuto un buon inizio perché la squadra lavora bene. Ansia? No. La B è felicità e serenità, sono altre le cose che mettono […]
BOSCAGLIA VIRTUS ENTELLA – Interessante intervista quella rilasciata da Roberto Boscaglia, tecnico della Virtus Entella, ai microfoni della Gazzetta dello Sport: “Due vittorie su due? Fortunati (ride, ndr). Vabbè, diciamo che abbiamo avuto un buon inizio perché la squadra lavora bene. Ansia? No. La B è felicità e serenità, sono altre le cose che mettono ansia. Primi o no, il nostro obiettivo resta salvarci.
Sono estroverso, ho fame di conoscere le persone, perché la conoscenza è tutto. La cordialità è sinonimo di apertura mentale, è capacità di ascolto. In effetti sono un tipo molto curioso. Mi interesso di tutti e tutto. Cosa attira nel mestiere di allenatore? La pressione che diventa adrenalina, l’abilità tattica, la capacità organizzativa sono attraenti. Ma quello che adoro davvero è l’emozione della gente. Il pathos che il calcio trasmette. Gioia e disperazione al massimo, amo allenare perché mi consente di vedere e vivere alcune emozioni assolute, per alcuni versi assurde.
Perché la B è così difficile e intensa? Primo perché è il torneo dei campanili, dell’identità di popolo. Poi l’aspetto tecnico: in A e in C esistono divari incolmabili. Invece la B è un insieme di abilità calcistiche, atletiche ed emotive che rendono ogni partita incerta. Una differenza molto mentale.
Nel tempo il mio linguaggio è cambiato, si è ampliato, mentre l’atteggiamento non è cambiato. Dall’Eccellenza alla B sono rimasto lo stesso come principi umani e di lavoro, però ho imparato a modulare il rapporto con i giocatori, che sono espressione di educazioni, nazioni. culture diverse.
Torregrossa? Ernesto è nato in un paese vicino al mio, conoscevo suo padre. Fui felice di trovarlo a Brescia, lui veniva da infortuni e incomprensioni. Usare il dialetto era un modo per farlo sentire a casa. Il dialetto lo proteggeva. Dovevo dirgli cose che lo scuotessero, cose pesanti, ma dovevo dirgliele con una carota. Ecco, il dialetto era la carota.
Mi piace lavorare con i giovani. Sono delle spugne. E comunque quei ragazzi, pur giovanissimi, avevano qualità enormi, non è che facessi loro un favore a farli giocare. I calciatori moderni sono figli del mondo. Io devo entrare nel mondo dei giocatori se li voglio comprendere. Se lei entra in una stanza e c’è un bambino gli parla come a un adulto? O cerca di mettersi al suo livello per stabilire una connessione? È questione di piani di linguaggio. Io psicologo o allenatore? Prima di allenare operavo in case-famiglia. Sono cresciuto cercando chiavi mentali.
Le chiavi dell’Entella non le ho ancora trovate. So che la squadra mi segue ma dobbiamo spostare i nostri limiti. I confini non sono lì per sempre. Non si gioca per pareggiare o fare barricate. Si gioca per vincere. Portare l’Entella in A? Non è una cosa che mi toglie il sonno. Ma prima o poi in A ci arrivo, mica finisce così…“.