Fedele al Calcio – Il Venezia non è un albergo: basta con questa dolce ossessione
Cos'è successo al Venezia?
“Venezia che muore, Venezia appoggiata sul mare“. Ancora: “Venezia è un albergo, San Marco è senz’altro anche il nome di una pizzeria“. Il rispetto da attribuire alle parole, in un’epoca in cui il piacere (che è anche necessità) per la conoscenza di quest’ultime è stato svilito dall’asciugamento dei repertori di vocaboli, porta a dover riconoscere chi ne ha messe insieme di stupende, intense, in un certo senso potenti.
Ecco, spiegare il Venezia attuale con la Venezia di Francesco Guccini (canzone scritta da Gian Piero Alloisio con alcune modifiche al testo dello stesso Guccini) è un esercizio utile, funzionale e in grado di dare quel tocco di colore in una trattazione altrimenti fredda e grigia, come la discesa patita da un club così romantico.
Venezia, perché?
Il progetto del Venezia era davvero affascinante, per certi versi unico, a tal punto da ritenere che i lagunari potessero/volessero cambiare il calcio. Determinate azioni e strategie erano, in effetti, innovative per il tessuto italiano. Da alcuni eccellenti professionisti nel reparto marketing e comunicazione (dal press officer Alessandro Basso al fotografo Giacomo Cosua: chi merita va menzionato) alla conseguente comunicazione molto interattiva, passando per un progetto tecnico effervescente, guidato da allenatori emergenti e portatori di idee succulenti (da Dionisi a Zanetti, menzionando lo stesso Soncin).
La promozione in Serie A al termine dell’annata 20/21 è stata la massima fioritura di tanti tasselli ben allineati, mai domi, vibranti. Al contempo, la redazione di questa pagina storica è stata purtroppo anche l’ultima nota lieta di un percorso che ha poi conosciuto lo sconforto della caduta. Cos’è effettivamente successo?
La prima faccia della medaglia…
Gli arancioneroverdi – è bene sottolinearlo – si sono davvero comportati da apripista per nuovi modi e tecniche di gestione di un club calcistico. Tanto, sotto questo punto di vista, ha inciso e favorito l’essenza stessa di Venezia, una città ricca di tradizione, fascino, possibilità. Il mandato di Duncan Niederauer è stato dunque basato proprio sull’intenzione di catturare tutto ciò e convertirlo in valore calcistico ed economico, creando dunque un ponte tra la città e la società che potesse dare un presente ma anche (se non soprattutto) futuro.
I risultati sono effettivamente arrivati: il kit home 2021/2022 è stato inserito tra i dieci migliori della stagione da Hypebeast, mentre è stata di notevole risonanza l’importante collaborazione con lo studio di design Bureau Borsche. I cambiamenti apportati al logo e alla brand identity, i tentativi di esaltare gli elementi caratterizzanti della città grazie al calcio: modus operandi che, almeno in Italia, fino a quel momento non era assolutamente stimolato a dovere.
…e la seconda
Questo processo di glocalizzazione, termine con il quale si intende rivelare la diffusione internazionale di elementi locali, è stato sempre più portato avanti senza soluzione di continuità, diventando passo dopo passo centrale nella gestione del Venezia. Questa continua espansione a un certo punto non è stata più contenibile, tagliando – per meglio dire tranciando – il legame proprio con quello che si desiderava esportare: la realtà veneziana.
L’estate che ha diviso la promozione dall’inizio del campionato di Serie A ha indicato la via da seguire (per quanto ci fossero già precedentemente indicazioni di questo tipo), che nell’ultimo anno e mezzo è stata spesso calcata, motivo per il quale ci limiteremo a elencarne i tratti salienti: i calciatori scelti con l’algoritmo (seppur questo punto, inizialmente evidenziato a ragion veduta, sia poi stato forse esacerbato dall’eccesso di critiche), in un approccio data-driven che oggi è necessario ma che è stato gestito senza ponderare il contesto (e il livello) in cui applicarlo; l’oggettiva confusione nell’identificazione dei soggetti da interpellare, alcuni dei quali tanto centrali quanto distanti dal confronto con la pancia cittadina; la sensazione di essere passati dall’intuizione all’ossessione (che proprio Guccini menziona). Il Venezia è sembrato vittima di una persistenza irragionevole, che ha portato a dilapidare quanto di encomiabile fatto in precedenza.
Cercare una cosa per poi ottenerne un’altra
Ad oggi, l’output di quanto si è analizzato e scritto è vicino a essere diametralmente opposto a quanto desiderato: il Venezia desiderava esportare nel mondo la propria assenza, ma la questione – tanto in campo quanto fuori – è questo progetto abbia portato il club a staccarsi proprio da quanto si desiderava esibire con orgoglio agli occhi del mondo. Questo genera una difformità concettuale e operativa potenzialmente pericolosa, perché la confusione comporta incertezza, a sua volta foriera di insicurezza e incapacità di saper emergere dai problemi.
Non riuscire a fidelizzare la propria gente, in un percorso che desiderava unire – come già scritto – la componente locale a quella internazionale, è una sconfitta che un gruppo di lavoro così ampio e competente non potrebbe né dovrebbe accettare. L’esuberanza tattica del Venezia di Paolo Zanetti, a suo tempo accompagnata dalla bellezza delle strategie commerciali del club, in pochi mesi sono diventati dolci ricordi utilizzati per tentare di rasserenare una tempesta perpetua. Questo non è (più) accettabile: Venezia non è un albergo, e non è possibile trattare la gondola come solo un bel giro di giostra.