ESCLUSIVA PSB – Le ambizioni di Parma e Venezia (e non solo), il gender gap e i margini per il movimento: Tedeschi parla del calcio femminile
Una panoramica sul calcio femminile
Un tema, quello del calcio femminile, spesso – purtroppo – banalizzato dalla stampa di settore, spesso noncurante della crescita fortunatamente continua, seppur con margini tanti (troppi?) margini ancora non esplorati, e superficiale nell’analisi di un movimento che merita rispetto, proposte e attenzioni. Per fare ciò abbiamo raggiunto in esclusiva Giulio Tedeschi, CEO & Founder della Tedeschi&Partners, agenzia con più di 120 clienti in giro per il mondo.
Il calcio femminile è probabilmente il compartimento con i più ampi margini di sviluppi in Italia, tanto in termini di tesserati quanto come peso economico, meriti certificati dal Report Calcio 2023, che parla di un numero di calciatrici tesserate per la FIGC raddoppiato tra il 2008 e il 2022, così come della previsione circa la crescita del valore commerciale del movimento, che passerà dai € 6,6 milioni del 2021 ai € 46,7 milioni del 2033. Tenendo in considerazione questi punti, nell’attuale campionato di Serie B maschile solo Parma, Venezia e Palermo condividono la stessa proprietà tra squadra maschile e femminile. Come commenti questa reticenza?
“Questa situazione sta migliorando anno dopo anno, in primis perché la FIGC cerca di premiare chi allestisce anche una squadra femminile. Chi non si comporta così viene penalizzato economicamente, inoltre inizia a essere visto come politically uncorrect non avere un team femminile. La FIFA porta avanti studi triennali, ed è stato delineato un aumento commerciale, che la FIGC ha ripreso, così come la crescita di visibilità a livello internazionale che il movimento sta sempre più ottenendo. Da operatore sostengo che la crescita, seppur non rapida, sia costante, questo è importante. Parlavi di Serie B maschile, ma se guardiamo quella femminile la Ternana è seconda in classifica, e ha la stessa proprietà del maschile. Il Cesena, terzo, ha la stessa proprietà in quanto c’è una partecipazione nel Cesena maschile, stesso discorso per il Parma e altre. La B femminile è un campionato oramai spaccato: chi condivide la proprietà con la divisione maschile compete tra il primo posto e metà classifica; chi non naviga in questa situazione va dalla metà in giù. Le disponibilità economiche sono fondamentali, ci mancherebbe, ma bisogna comunque sottolineare che non vengono iniettati milioni per portare un club ai primi posti: parliamo dal mezzo milione al milione e mezzo, motivo per il quale un club come Arezzo o Brescia, che per allestire la squadra hanno investito molto meno, inevitabilmente si consegnano a una stagione differente. Il discorso tocca anche la Serie A dove, eccezion fatta per Napoli e Pomigliano, così come il Como, che è stato comprato da un gruppo di americani, Mercury/13, sono tutte compagini che condividono il management con il maschile. Oramai, dunque, gli investimenti aumentano e i club piccoli, senza grosse proprietà, fanno fatica. È sempre più auspicabile, e credo che la tendenza sia oramai questa, un ingresso del calcio maschile in quello femminile. Sottolineavi giustamente la reticenza: bisogna capire come quello femminile sia un movimento più che un tipo di calcio diverso e, in quanto tale, secondo me va sposato nella sua totalità, che è quello che abbiamo fatto in agenzia. Serve coerenza, oltre a persone intenzionate a far crescere il tutto”.
Pur sapendo che la domanda sia poco dettagliata, per una società media – in termini di possibilità economico/finanziarie e bacino d’utenza – di Serie B maschile, c’è oggi convenienza economica ad aprirsi al calcio femminile? Qualora la risposta fosse negativa, dove bisognerebbe intervenire?
“Bisogna lavorare molto sulla fanbase. Non c’è una convenienza economica ad aprirsi al calcio femminile, ma secondo me è il calcio lato sensu a essere un settore dove il vantaggio economico è molto raro, difatti pochi club riescono a chiudere in attivo. Le ragioni possono, tornando alla domanda, possono essere disparate: avere una squadra femminile vuol dire essere al passo coi tempi, senza fare distinzioni di genere, ma bisognerebbe vendere il prodotto, trovare piattaforme in grado di rendere sostenibile questo processo per i club. La FIGC contribuisce, seppur in misura non determinante, finanziando e supportando i club femminili, ma il passo in avanti andrebbe fatto in termini di diritti tv, dove in Italia siamo molto indietro. È possibile vedere le partite su DAZN, quasi tutte gratuitamente, oppure una a settimana su Rai 2, così come Bepi TV su Youtube, ma sarebbe necessario – come Federazione – attrarre un player magari proprio come DAZN e far pagare quest’ultimo per trasmettere il calcio femminile. Parlo di un’utopia fino a quando il movimento resterà questo: in Spagna DAZN acquista pacchetti importanti dalla Federcalcio spagnola, i club da questo hanno un ritorno da ciò, e realtà come Valencia, Siviglia e Betis ottengono una fetta consistente di ricavi utili a gestire la squadra. In Italia c’è un format che non piace tanto a chi lavora in questo settore: una Serie A con dieci squadre, che a un certo punto si dividono per playoff e playout, giocando tantissime volte l’una contro l’altra. Allarghiamo a quattordici club la massima serie, ci sono club in B che spingono tantissimo per partecipare: il Parma è una società ricca, così come Lazio, Ternana, Genoa, Bologna. La cadetteria femminile è davvero poco attrattiva per gli investimenti. C’è una cosa assurda: in Serie A retrocede solo una squadra, dunque può capitare che penultima e ultima facciano rispettivamente uno e zero punti, rivelandosi dunque inadeguate a competere a quei livelli, ma quella che ha fatto un punto probabilmente resterà in A, perché è previsto uno spareggio con chi è arrivato secondo in B. Nel momento in cui, dunque, il sistema è questo: che senso ha, per le compagini in seconda visione, investire a gennaio quando magari si è già creato un netto distacco tra primo, secondo posto e resto della classifica? A quel punto il senso sportivo ed economico viene davvero meno. Le spinte per il miglioramento arrivano anche dalla C femminile: il Lumezzane dell’Airone Caracciolo sta facendo benissimo, così come il Venezia”.
Il passaggio al professionismo per la Divisione Serie A femminile, pur avendo avuto inevitabili riflessi positivi nei diritti lato sensu da riconoscere alle calciatrici di questa categoria, ha probabilmente acuito le difficoltà manageriali per determinati club meno facoltosi, seppur con calciatrici di quel livello, complice l’aumento di costi a fronte di ricavi non cresciuti in misura proporzionale. Questo, secondo te, può frenare l’intenzione di compagini – a titolo di esempio – come Cittadella, Südtirol, Lecco o Feralpisalò a investire con il timore di ritrovarsi poi una costola operativa con un pericoloso rapporto tra costi e ricavi?
“È chiaro che ci siano stati quelli che sono appunto benefici lato sensu per le calciatrici. Il movimento deve puntare sulla generazione X, quella Y, sui venticinquenni/trentenni, dunque persone con la mente ancora elastica per modificare le proprie abitudini, come andare a vedere un determinato evento sportivo, senza pregiudizi come, ad esempio, il fatto che le donne non sappiano giocare a calcio. Sono questi i profili che vanno allo stadio, che portano persone con sé, generando dunque flusso, chiedendo foto e autografi alle calciatrici che seguono, una cosa molto bella e impensabile fino a pochi anni fa. Servirebbero anche delle attività collaterali che portino persone al campo: i biglietti sono spesso gratuiti o comunque con costi irrisori, giusto per citarne una. L’Emirates ha fatto registrare il tutto esaurito meno di due mesi fa per un match dell’Arsenal Women, sono record che spesso vengono riscritti. Questo è un qualcosa che dovrebbe partire dal basso, dalle piccolezze: è molto triste vedere club con shop dove non c’è alcun gadget della squadra femminile. Bisognerebbe dare un’opportunità in termini di merchandising, magari ridotta come numero di prodotti, anche al femminile. Le atlete meriterebbero più visibilità, con interviste come quelle di Diletta Leotta ad Alice Pignagnoli e la sua esclusione per motivi di maternità, una dinamica per noi tristemente nota. I costi aumentano, i ricavi no, perché è necessario che si studi un nuovo format più comprensivo dei bisogni dei club, che sicuramente sarebbero contenti di ottenere determinati benefici a fronte dei propri investimenti. In Portogallo c’è un modo di operare nel calcio che porta a marchiare tanti sport con il proprio logo, che porta il tifoso di un club a vivere a 360° quella realtà, così da non vedere solo la squadra maschile ma anche quella femminile e tutte le altre discipline in cui società come il Benfica, faccio un esempio, competono. Così facendo si crea e si alimenta una cultura più ampia. Racconto un aneddoto: il PAOK è multi-sport, ma addirittura è il PAOK femminile che mette a disposizione lo stadio al maschile, perché nascono come società femminile, e infatti per dare in concessione al maschile ricevono ogni anno una fee, trovando così il modo di guadagnare. Concetti che, purtroppo, in Italia risultano ancora astrusi”.
Chiudiamo con una considerazione tanto attuale quanto generica: il web è zeppo di dibattiti sulla parità di retribuzione e il fastidioso gender gap. Che opinione hai della tesi secondo la quale la retribuzione vada pesata in base agli introiti generati e, soprattutto, cosa ritieni che andrebbe fatto da chi di dovere (enti sovranazionali, federazioni, figure apicali: chi più ne ha, più ne metta) per eventualmente favorire questo processo? La sensazione del sottoscritto è che un aiuto, in tal senso, dovrebbe arrivare permettendo alle calciatrici di essere parte di un sistema stimolante, innovativo, con infrastrutture valide, cosa che probabilmente oggi non accade ovunque.
“Sottoscrivo in pieno il tuo pensiero. C’è da chiarire una cosa: il salary gap è presente ed è parte quindi della gender diversity che troviamo in tema di retribuzione. Quello che si chiede è l’equiparazione agli standard dei minimi federali del maschile. La giocatrice di Serie A femminile ha un minimo federale che equivale a quello di un calciatore di Serie C maschile, parliamo di 1200/1300/1400€ netti mensili. Si dice, dunque, quanto segue: se gli standard continuano a crescere, e le atlete che competono in A giocano tante partite, sono sottoposte a un tipo di quotidianità che per nulla differisce rispetto ai colleghi della massima serie maschile. Sono delle professioniste vere e proprie, hanno tanti obblighi e divieti, quindi devono occupare tutta la settimana tra palestra, allenamenti, attività sociali del club, un mestiere vero e proprio. Non parlo di innalzamento al punto che ci sia una perfetta parità tra A maschile e A femminile, ma di una crescita che porterebbero compagini che non vogliono investire, come potrebbero essere, ad esempio, Feralpisalò e Cittadella, a farsi da parte. Si farebbe, così, una selezione automatica in favore del movimento: chi se lo può permettere, resta dentro, ragionando poi su eventuali sgravi fiscali e altri, possibili, benefici derivanti dalla Federazione. I mancati investimenti ricadono poi sulle atlete, che sono poi pagate pochi euro al mese, e in Serie B, così da chiudere il cerchio con l’inizio dell’intervista, se non si ha la fortuna di rientrare in quegli 8-9 club su 16 con determinate disponibilità, si viene messe ai limiti con 400-700€ al mese, giocando contro colleghe – dunque dello stesso campionato – che possono arrivare a 2500-3000€. Non si chiedono gli ingaggi di Vlahovic e Lautaro, ma di sostenere il movimento”.