ESCLUSIVA PSB – Venezia, Vanoli: “Raggiunto un traguardo prestigioso, ora lavoriamo per il sogno”
L'allenatore in esclusiva ai nostri microfoni
Il recente passato del Venezia non è stato facile da vivere né lineare da assorbire. Tanti cambiamenti, eventi dagli acuti assordanti, una gestione che è stata incupita da una forma di stress sportivo ed emotivo che non ha probabilmente valorizzato una simile culla di calcio e valori. Questa realtà – intesa come città e società sportiva – ha il diritto di provare costantemente a mostrare il proprio status, mescolando l’unicità del luogo con le intenzioni manageriali connesse al club, così da rimarcare ciò che si è in un modo che, come si è già avuto modo di rimarcare, in una determinata fase è stata unica. Ritrovare la via della stabilità e del sorriso non è stato facile, perché alcuni passaggi non hanno trovato allineamento rispetto alle esigenze e ai momenti. A Rio Novo, tra i sestieri di Santa Croce e Dorsoduro, è presente il “Migrant Child”, un’opera di street art di Banksy, uno dei maggiori esponenti mondiali di questa ramificazione artistica che Venezia ha accettato, così da aggiungere al proprio tessuto anche questa specialità. Il writer dall’identità sconosciuta ha consegnato il seguente precetto: “Ho bisogno di qualcuno che mi protegga da tutte le misure adottate al fine di proteggere me stesso”. Paolo Vanoli, in un certo senso, al Venezia ha donato (anche) questo: la riscoperta dell’equilibrio dopo una congerie di decisioni e iniziative che stavano pericolosamente dissolvendo il patrimonio di un sodalizio dalla bellezza luccicante. Il cambio di direzione si è rivelato netto, superiore alle avversità, immaginato e condotto per una risalita che ora è sotto gli occhi di tutti. L’allenatore è intervenuto in esclusiva ai nostri microfoni, avallando e favorendo la fioritura di diversi temi.
Il Venezia, da quando lei siede sulla panchina (tredicesima giornata, ndr), è al sesto posto per punti raccolti e al secondo per reti segnate, dietro solo al Frosinone. Un rendimento encomiabile, soprattutto se valutato nella situazione che ha trovato al suo arrivo. Ciò che è ulteriormente notevole è che l’identità oramai riconosciuta e riconoscibile della sua squadra sia stata plasmata giocando, perché tempo per fermarsi, ragionare e comprendere non ce n’è stato. Paolo Vanoli, dunque, ha praticamente lavorato tramite le partite. Quali corde ha toccato per ottenere quanto descritto?
“Nel corso di questi mesi ci sono capitate tante situazioni, arrivare oggi a una salvezza così importante, con determinati numeri, certifica un lavoro difficile e faticoso. Il merito va anche a questi ragazzi, che hanno capito la dinamica per poi riuscire, tutti insieme, a diventare una squadra. Quando si raggiungono determinati obiettivi bisogna in primis essere un collettivo. Come ho detto a loro, il singolo non fa mai la differenza: bisognava edificare una squadra che avesse dei valori chiari, ma soprattutto una identità ed una organizzazione di gioco forte. La cosa più difficile è stata ritrovarsi in fondo alla classifica, tanta gente fuori non capisce la difficoltà di dover gestire un gruppo retrocesso dalla Serie A, ricostruito per vincere un campionato, che si ritrova ultimo in classifica, con la necessità dunque di capire cosa significhi combattere per simili obiettivi. Questa è la differenza tra le aspettative e la realtà dei fatti. È stato il tratto più complicato, ma detto ciò bisogna fare in primis i complimenti al nostro presidente, che nel momento più delicato ha saputo tornare sui propri passi. Avere una guida, a questo livello, che si comporta così, vuol dire riconoscersi in una persona cui dare meriti e dedicare la salvezza. Da questo è iniziato qualcosa di importante, poi arrivano i giocatori e le persone che lavorano intorno ai calciatori. Quello che vorrei fare ora è costruire la mentalità, è per questo che sottolineato come davanti a noi ci sia un sogno fatto di motivazioni. Come si dice nell’automobilismo, è il momento di pigiare il piede sull’acceleratore e andare a 2000 km/h”.
Il Venezia è una squadra che riconosce le situazioni, costruisce trame corali, favorisce il protagonismo dei singoli. Una compagine, dunque, coraggiosa, che sa giocare più partite. Un processo profondo e articolato, che vi vede secondi per marcatori diversi e primi per giocatori impiegati.
“Sono stato fortunato ad avere esperienze importanti, questo deriva anche da esperienze importanti. Ho avuto la fortuna di impegnarmi con allenatori vincenti. Grazie alla gavetta ho avuto modo di lavorare con Arrigo Sacchi, una persona che ha cambiato il calcio e che mi ha trasmesso l’importanza del dettaglio. Detto ciò, altra fattispecie benevola è stata quella di aver lavorato per cinque anni con uno dei migliori allenatori al mondo, Antonio Conte. Penso di aver tratto tanto da queste due situazioni, dopodiché allenare lo Spartak Mosca mi ha temprato sotto tutti gli aspetti, perché è un club di cui non tutti capiscono la tipologia: è il sodalizio russo con più tifosi ed è paragonato alla Juventus in termini di importanza per il Paese in cui compete. Siamo riusciti, in una stagione cominciata un po’ male, a portare a casa una coppa con ottantamila persone allo stadio. Tutto questo mi ha permesso oggi di riuscire a dare ai ragazzi delle chiavi importanti. C’è un lavoro di psicologia e motivazione, ma quest’ultima risiede nel gioco, ho sempre detto alla squadra che nei novanta minuti ci sono più partite, bisogna riuscire a essere bravi a leggerle. Dico la verità: ancora oggi è un aspetto in cui dobbiamo crescere, aver perso un giocatore come Jajalo ci ha penalizzato, ma con coraggio e convinzione abbiamo consegnato le chiavi del centrocampo a dei ragazzi giovanissimi. Vedo Tessmann e ne percepisco la crescita, sostituire Jajalo è una cosa realmente difficile, complimenti a lui. Siamo comunque consapevoli, per menzionare una partita, come a Cosenza sia mancata l’esperienza per gestire un match di quel tipo. Ho detto al gruppo che è parte del progetto, bisogna pensare che stiamo costruendo e che non si è ancora fatto niente. La mentalità vincente non arriva dopo una settimana, un mese o dopo quello che abbiamo fatto, bensì si acquisisce con la mentalità. È una crescita che deve coinvolgere non solo i calciatori, perché le fortune di un progetto sono fatte anche da tutte le persone che lavorano per questo club, ergo la salvezza va ulteriormente dedicata a tutti. Non bisogna ripetere gli errori e pensare che tutto sia ancora all’inizio”.
Lei ruota i centrocampisti in base alle necessità della partita, ai momenti di forma e a ogni altra variabile del caso, ma c’è un calciatore che oramai è diventato un perno, ovvero Tessmann, che con lei è ovunque, esercita plurime funzioni e ha raggiunto il proprio livello di calcio più alto. Che lavoro ha fatto sul ragazzo?
“Bisogna innanzitutto sottolineare come un altro tassello importante per questa ricostruzione sia da ritrovare nel direttore sportivo. Una settimana dopo il mio arrivo ho chiesto alla società di affiancarmi un DS, e il club è stato bravissimo a prenderne uno esperto come Filippo Antonelli, con tanta gavetta e altrettanta conoscenza della Serie B. Ci siamo guardati negli occhi per preparare il calciomercato invernale e abbiamo concordato su quali fossero le zone su cui intervenire. Sono un allenatore che ha sempre lavorato con i giovani, mi piacciono tantissimo. Bisognava cercare mezzali con gamba, propense ad attaccare gli spazi. Il mio è un gioco verticale più che di palleggio, dunque mi piacciono interni di centrocampo abili in entrambe le fasi. Devo dire che il direttore si è mostrato perfettamente concorde, sulla base di questi parametri abbiamo operato. È arrivato un allenatore in campo come Jajalo, poi l’organico è stato rimpolpato di giovani, sebbene alcuni di loro, come Carboni, sembra che giochino da una vita, senza dimenticare Ellertsson. L’inserimento di Jajalo nel nostro scacchiere ha permesso sviluppi più qualitativi e meno frenetici, perché dettava i tempi. Tornando a Tessmann, io ritengo che lui fosse una mezzala, perché ha tiro, gamba, tempi di inserimento: la sua bravura è stata quella di calarsi in una nuova parte a seguito dell’infortunio di Jajalo, in quanto a mio avviso era lui l’unico in grado di occupare quelle zolle, seppur in maniera diversa. Ha grossi margini di miglioramento, e resto del parere che lui possa ancora ben figurare da mezzala, perché ha gol nelle corde e sa accompagnare l’azione. Va elogiato, fare il play non è facile, ma lui l’ha fatto con maturità e personalità. Non deve sedersi, ha ancora ampi margini di miglioramento, ma concordo con la sottolineatura sul suo rendimento. Può fare benissimo quel ruolo: sa usare entrambi i piedi, giocare corto o lungo, e tra l’altro ha la gamba per andare a pressare in avanti”.
Come già discusso, il vostro è un calcio intenso, qualitativo, corale e variopinto in termini di conoscenze, ma c’è un calciatore in particolar modo che vi permette di poter fare più scelte, ovvero Joel Pohjanpalo, un profilo in grado di recitare lo spartito di riferimento offensivo sul quale appoggiarsi nelle situazioni difficoltà, così come quello di cannibale quando bisogna capitalizzare la mole di gioco. Cosa significa per voi avere un simile profilo in rosa?
“Significa essere fortunati ad avere giocatori con un profilo di alto livello e lui lo è, la sua carriera lo dimostra. Lui viene dal Leverkusen, ciò è ovviamente un aiuto in un senso, ma l’altra faccia della medaglia ha rivelato i problemi avuti anche da lui in una prima fase. Il campionato di Serie B non è facile da giocare, soprattutto per uno come Joel, perché i difensori ne conoscono lo status e contro di lui cercano sempre di mettersi in mostra. Inizialmente ha fatto parecchia fatica, abbiamo parlato e gli ho fatto capire la differenza tra determinati contesti elitari e la Serie B, lì si è vista la differenza tra il calciatore intelligente e gli altri. Gli ho dato la fascia da Capitano perché è un grande professionista, e questo va certificato non solo con quanto fatto in partita bensì con il lavoro quotidiano: si allena sempre forte e si allena per la squadra e con la squadra, come dice Sacchi. Lui è lo specchio della crescita della squadra”.
Probabilmente ora non bisogna parlare di futuro, perché troppo corposo e luccicante è quanto vi state giocando, ovvero l’accesso ai playoff. Sottolineato ciò, alla luce dell’equilibrio che ha contribuito a riconsegnare alla piazza, che prospettive sportive vedere per il Venezia e come si inserisce in quest’ultime?
“Quello che ho costantemente fatto nelle società è costruire qualcosa, ma non per Paolo Vanoli, ma per il club. Sono orgoglioso, a nome anche del mio staff, di aver cambiato una situazione che appena un mese fa ci vedeva disperati, perché non sapevamo se ci saremmo salvati o meno. Con sacrificio, lavoro e determinazione, ingredienti che generano i risultati, siamo riusciti a raggiungere un prestigioso traguardo e oggi lavorare per il sogno. Sto provando a mettere in atto ciò che ho imparato dai grandi allenatori: un allenatore bravo è quello che valorizza il patrimonio della società, soprattutto per rispetto del presidente. Ho questo tipo di mentalità, più manageriale che meramente focalizzata sui risultati. Oggi è davvero bello ciò che stiamo vivendo: ai ragazzi l’ho sempre detto, i tifosi capiscono le prestazioni. La nostra gente adesso viene volentieri ad assistere alle nostre sfide per due ordini di ragioni: le scuse del presidente, un gesto non da tutti, e lo spirito del gruppo, che in campo dà tutto. I supporters hanno riconosciuto tale connubio, che a mio avviso è propedeutico all’ottenimento di grandi traguardi. Ovviamente il processo non è finito: a giugno ci saranno tante cose da sistemare. Non ci illudiamo, ma proseguiamo incessanti. I treni passano una volta, bisogna tentare di salire. Ai ragazzi ho detto che noi potremmo essere una delle pochissime squadre passate dall’ultimo posto al sogno Serie A”.