14 Ottobre 2020

ESCLUSIVA PSB – Una storia di calcio e vita, talento e perseveranza: Arturo Lupoli si racconta

La nostra vita è un libro invisibili che ogni giorno è pronto a essere aggiornato. Tante pagine implicano aneddoti, storie, approfondimenti, momenti alle volte raggianti, altri bui. La superficialità, dunque, non è ammessa. Il libro della carriera (e della vita, perché il calcio ne fa concretamente parte) di Arturo Lupoli racconta di un ragazzo, prima […]

La nostra vita è un libro invisibili che ogni giorno è pronto a essere aggiornato. Tante pagine implicano aneddoti, storie, approfondimenti, momenti alle volte raggianti, altri bui. La superficialità, dunque, non è ammessa. Il libro della carriera (e della vita, perché il calcio ne fa concretamente parte) di Arturo Lupoli racconta di un ragazzo, prima che un attaccante, che ha vissuto tante cose e che ha un vissuto tale da poter tenere incollati allo schermo o al telefono per leggere o ascoltare. Tutto ciò diventa ricco e interessante quando si concede al classe ’87 la possibilità di aprirsi invece di costringerlo a difendersi da superficiali e miopi accuse riguardanti ciò che, come si suol dire, poteva essere non è stato. Arturo Lupoli, invece, è stato ed è. Ha deciso di ripartire dalla Serie D, ennesimo capitolo di un libro, come dicevamo, ricco e variegato. Intervenuto in esclusiva ai nostri microfoni, queste le sue dichiarazioni.

Nuova esperienza, nuova categoria, nuovi stimoli e un ottimo inizio. Come stai sincretizzando tutto ciò?

“È un’esperienza, per me, totalmente nuova. Non è stata una scelta esclusivamente calcistica, dato che ho valutato diversi aspetti. A Verona ero in una situazione in cui sapevo che avrei giocato poco e, a mercato chiuso, si è presentata quest’opportunità, che ho deciso di sfruttare. Ho ricevuto diverse proposte da compagini militanti in Serie D, in qualcuna di queste avrei potuto strappare un contratto migliore ma la mia volontà era quella di tornare qui, perché ho vissuto vicino Fermo per due anni e la mia famiglia si è trovata molto bene. Più avanti faremo le opportune valutazioni”.

Hai vissuto la Serie B in diverse compagini, prima tra tutte l’Ascoli. Quattordici gol in due stagioni tra cadetteria e Coppa Italia per un’esperienza che possiamo definire positiva. Che ricordi hai della piazza?

“Ascoli è una grandissima piazza, con una tifoseria molto calda. Sono state due stagioni con analogie e differenze. In entrambe le annate siamo partiti con delle penalizzazioni in classifica e abbiamo avuto avvii complicati. Il primo anno, con mister Pane in panchina, abbiamo faticato nelle prime 6-7 partite prima dell’approdo di Pillon, con il quale c’è stata una cavalcata bellissima, terminata sfiorando i playoff. Nella stagione 2010-2011, invece, c’è stato l’avvicendamento tra Gustinetti e Castori, e con quest’ultimo siamo riusciti a salvarci. Ho un ricordo molto bello, sono stati periodi molto intensi, nel corso dei quali siamo anche stati contestati, ma ciò era comprensibile, perché Ascoli è una piazza che richiede tanto. Ho in mente tante partite memorabili, alcune delle quali vinte all’ultime secondo. Ricordo il gol all’esordio contro il Mantova, oppure la doppietta contro la Salernitana e tanti altri momenti in cui mi sono emozionato a giocare in uno stadio così e con una tifoseria di prim’ordine”.

Poco più di quattro stagioni dopo arriva la parentesi Frosinone, compagine che accetti dopo aver fatto bene a Varese nella prima parte di stagione. La promozione fu sicuramente un traguardo importante ma, allargando la valutazione, come commenti l’avventura in terra Ciociara?

“A Varese avevo trovato la mia dimensione, stavo facendo molto bene e, sinceramente, a gennaio non volevo andare via. La società fu chiara e mi disse che la possibilità di fallimento era concreta ergo, nonostante avessi ancora un anno e mezzo di contratto, presi questa decisione perché avrei perso soldi, oltre a dover vivere una seconda parte di stagione complicata, come effettivamente si rivelò per i biancorossi. Fu una scelta, ad ogni modo, combattuta, non a caso l’ufficialità arrivò nel corso dell’ultimo giorno di mercato. Il Frosinone era una neopromossa, non c’erano aspettative di vittoria del campionato, ma in quell’annata tutto andò per il verso giusto in termini di alchimia e compattezza. L’esito era positivo indipendentemente dalle scelte di formazione. Ricordo con piacere mister Stellone, uno dei migliori allenatori che ho avuto, in particolar modo in termini di gestione del rapporto con i calciatori. I titolari erano Ciofani e Dionisi, ma quando c’era bisogno sapeva di poter contare su di me e Carlini, così come fu un grande anno quello di Soddimo. Quella che arrivò fu la prima promozione in A del Frosinone, motivo per il quale fummo insigniti della cittadinanza onoraria, un’emozione notevole”.

Un’altra esperienza per te sicuramente intensa è stata quella di Pisa. È stato già detto e scritto molto su quell’annata, ma un parere e un ricordo dall’interno può aggiungere particolari ed emotività. Come hai vissuto quei nefasti momenti attinenti la gestione societaria prima dell’arrivo dei Corrado?

“Era una situazione surreale. Dopo i primi venti giorni di ritiro passammo circa quaranta giorni senza allenarci, con i tifosi al campo. Eravamo lì, non ci allenavamo e, ad ogni modo, andammo a giocare due partite di Coppa Italia facendo dei torelli il giorno prima. Ci presentammo alla prima di campionato con un mese di inattività. Un’annata davvero strana. Non ho un grande ricordo anche per i trascorsi personali con Gattuso, ma sono storie che appartengono al passato e non voglio fare polemica”.

Fatto questo excursus sulle tue tappe in cadetteria, è inevitabile ampliare i confini della discussione. Su di te si sono pensate, scritte ed esternate tante cose più o meno condivisibili per contenuti e profondità. È difficile, però, trovare tue interviste dove ti viene chiesto cosa tu abbia concretamente provato negli anni, tra speranza, delusioni, gioia e, forse, tratti di rassegnazione. La domanda, dunque, è questa: come ha vissuto la sua carriera Arturo Lupoli?

“È un discorso molto complesso. Ritengo che nella mia carriera ci siano stati dei passaggi fondamentali: in primis quello in Inghilterra, probabilmente la scelta migliore che potessi fare, dato che sono andato in una società spettacolare, grazie alle quale ho avuto la possibilità di esordire in FA Cup, Carling Cup e Premier League, oltre ad alcune panchine in Champions League. Esperienze, forse, per le quali l’età non era quella giusta, perché non ero pronto. Nonostante ciò, ho sempre risposto presente in campo. L’anno successivo, al Derby County, ho vissuto probabilmente la migliore stagione della mia carriera dato che, tra Championship e coppe, ho segnato undici gol e servito dieci assist. Successivamente c’è stato un grande passaggio a vuoto, quello con la Fiorentina. A volte, quando dico che ho sbagliato ad andare a Firenze, c’è chi si arrabbia perché crede che così facendo il sottoscritto non renda giustizia alla piazza. Il mio discorso è esattamente opposto, dato che è un complimento: a mio avviso, a 19-20 anni non dovevo andare in una squadra all’epoca impegnata con i preliminari di Champions League. Ciò di cui avevo bisogno era una compagine, in Serie A, che mi avrebbe dato la possibilità di giocare 15-20 partite per poter poi spiccare il volo in una categoria, come la massima serie italiana, caratterizzata da un livello molto alto. Ad ogni modo, penso che ognuno vive la carriera che merita. Sarei arrivato e rimasto in A qualora avessi meritato ciò. Gli infortuni hanno influito, in particolar modo quelli alla caviglia. A Grosseto, proprio per questo, ho vissuto momenti complicati. Tra i 17 e i 22 anni ho avuto modo di guadagnare tanto, questo poteva spingermi a mollare e ad andare a divertirmi in categorie minori, ma ho sempre avuto la voglia di dimostrare e fare qualcosa di positivo. Durante la mia carriera, seppur ribadisco che ognuno ha ciò che si merita, sono stato penalizzato dal fatto che, eccezion fatta per Derby County e Varese, tutti gli allenatori si aspettavano da me la giocata per risolvere la partita. Dovevo fare qualcosa in più rispetto agli altri e, quando ciò non accadeva, venivo messo da parte per 3-4-5 partite, alle volte anche di più. Il timbro di quello che all’Arsenal, a 17 anni, ha fatto doppietta contro l’Everton e in Under 21 ha segnato all’esordio mi ha sicuramente aiutato da un punto di vista economico ed esperienziale ma, allo stesso tempo, ho percepito questa differenza di trattamento da parte degli allenatori che, a parità di livello, preferivano calciatori senza il mio nome e il mio passato. Non ho mai capito ciò, ritengo che tutti i calciatori vadano giudicati esclusivamente in base al verdetto del campo”.

Nel calcio, spesso, si usano le statistiche per costruire lo spessore e, di conseguenza, la rispettabilità di un’opinione. A detta del sottoscritto, ciò non è vero, dato che hai un vissuto e un bagaglio di esperienze tali da metterti nelle condizioni di elargire consigli e aiutare altri calciatori nella gestione dell’emotività. Avverti questa possibilità e, in un certo senso, responsabilità?

“Assolutamente sì. Ciò che mi ha soddisfatto maggiormente nella mia carriera è stato notare la grande curiosità, stima e rispetto che gli altri nutrono nei miei confronti, sia come giocatore che come uomo. Ovunque sono andato, ho cercato di farmi conoscere e lavorare sempre nel modo giusto. Nel calcio, alla fine della carriera, resta la persona, è questa che deve lasciare il segno. Mi capita di incontrare spesso ex compagni di squadra che mi salutano e hanno un ricordo positivo di me: questa credo che sia la cosa più bella”.

In merito alla gestione dell’emotività: hai avuto una o più persone, nel mondo del calcio, che ti hanno supportato in questo fondamentale?

“In alcuni anni, soprattutto quelli di Ascoli e quelli del doppio infortunio alla caviglia, ho avuto momenti molto difficili e bui. Spesso, nel calcio, si parla di depressione o di fasi in cui si fa fatica a trovare la serenità anche nella vita quotidiana. Ho vissuto tutto ciò in prima persona, so veramente cosa significa, ma sono sempre stato un ragazzo molto testardo e desideroso di risolvere autonomamente i problemi. Qualche anno fa, probabilmente tardi, dato che avevo già 28-29 anni, ho incontrato Alberto Ferrarini, una persona che mi ha aiutato sotto diversi aspetti. Mi ha dato tanti consigli, siamo diventati molto amici e sono felice di averlo incrociato sul mio cammino”.

Concludiamo con una curiosità: qual è il futuro che immagini per una personalità calcisticamente variopinta come la tua?

“In estate ho seguito il corso per ottenere il patentino UEFA B. Fino a un paio d’anni fa non avevo alcuna idea di ciò che avrei fatto a fine carriera, ero spaesato. Da un anno a questa parte mi si è accesa la lampadina, l’unico ruolo che potrei avere nel mondo del calcio è quello di allenatore, dato che mi piace l’aspetto tecnico, tattico e umano, quest’ultimo in particolar modo permette di stare in contatto con un gruppo di calciatori così da poter trasmettere idee e valori. Per fare questo bisogna studiare, aggiornarsi ed essere pronti, perché al giorno d’oggi sono in tanti a voler diventare allenatori. È un lavoro difficile, che tiene impegnati a 360°, motivo per il quale sto studiando e guardando tantissime partite, oltre a chiedere consigli a diversi miei ex compagni che allenano da diversi anni. Vediamo se questa strada sarà quella giusta”.

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