Cremonese, Vasile Mogos si racconta: “La lingua comune è il pallone, mi ha aiutato ad integrarmi”
Vasile Mogos non è uno di quei giocatori che passa inosservato, personaggio tutto da scoprire dentro e fuori dal campo. Trasferitosi in Italia a 6 anni, ha puntato tutto sulla sua famiglia. “Il gol di Emmers è stata una liberazione – esordisce ai taccuini de La Gazzetta dello Sport – siamo sempre rimasti compatti. Spesso […]
Vasile Mogos non è uno di quei giocatori che passa inosservato, personaggio tutto da scoprire dentro e fuori dal campo. Trasferitosi in Italia a 6 anni, ha puntato tutto sulla sua famiglia.
“Il gol di Emmers è stata una liberazione – esordisce ai taccuini de La Gazzetta dello Sport – siamo sempre rimasti compatti. Spesso affondi, noi siamo stati capaci di rialzarci. Credo abbiano esultato anche al bar.
A questo punto conta l’atteggiamento più di tattica e tecnica. Abbiamo impiegato tempo a trovare l’equilibrio con i nuovi. Ora Rastelli ci sta riuscendo. Il gruppo è forte, dobbiamo sentirci responsabili, andiamo noi in campo.
La partita di domani contro il Venezia sarà fondamentale, una gara complicata. Non faccio tabelle, vivo alla giornata come nella vita. Altrimenti inizi a farti film.
Ho iniziato grazie alla mia famiglia, grazie ai miei genitori, ai loro sacrifici e alle loro rinunce. Mi emoziono per le cose vere, per un discorso che fa il mister o un amico. Non c’è motivo di frenare le lacrime. Mi stimola, vado più forte.
Quando sono arrivato in Italia avevo 6 anni, con mamma e i 4 fratelli raggiungemmo a Torino papà che aveva appena subito un grave incidente d’auto. Lui era arrivato nel 1995 e faceva l’asfaltatore, era emigrato per darci un futuro. Poi ci trasferimmo a San Damiano d’Asti, a 40 km. Mamma ci disse che sarebbe stata una vacanza, un giorno mi ritrovai a scuola.
L’integrazione non fu facile perchè ero molto timido, non volevo sbagliare. I miei mi hanno educato bene, in maniera rigida ma positiva. La lingua comune era il pallone, mi ha aiutato ad integrarmi.
Lo sport in famiglia è visto come un obbligo. Papà ha giocato a calcio da giovane. Ioana gioca da opposto a pallavolo nel Canelli in Serie C. A me piaceva kickboxing. Mia cugina Andrea è un’atleta paralimpica di scherma. E’ molto forte, stupenda, è uno dei miei esempi. Non so come faccia, ma ha sempre il sorriso. Mi rende felice e mi supporta. E’ venuta a vedermi a Cremona, la settimana prossima andrò io a Pisa a seguirla. E magari conoscerò anche Bebe Vio che ho sentito al telefono, sono compagne di squadra.
Un difetto e un pregio? Sono generoso ed è un pregio e un difetto perchè sono troppo buono e qualcuno ne approfitta. Forse sono troppo istintivo, devo imparare a contare fino a 10.
Ho iniziato a giocare nel San Damiano, a 10 anni sono passato nell’Asti con cui ho vinto un campionato d’Eccellenza. Quindi Real Vicenza, Porto Tolle, un paio d’anni da svincolato ed ecco il Lumezzane. Nasco da mezz’ala, mi piaceva attaccare la porta. In D mister Civeriari mi ha provato terzino, mi disse: “Un mio amico cambiò ruolo e dopo anni alzò la Coppa del Mondo: Beppe Bergomi”. Mi stimolò.
Ad asti studiavo per mamma, d’estate lavoravo in vigna, ma ho fatto anche il cameriere e il barman. Da quando ho 16 anni non ho più chiesto soldi ai miei, mi vergognavo. Mio padre ha fatto 20 anni l’asfaltatore, ora sono contento che sia sul divano a vedersi le partite. Dai miei ho imparato il rispetto familiare. Mi fa male vedere le famiglie disunite.
Quanti tatuaggi ho? Troppi, mamma e papà non sono felici. Tutto quello che ho addosso è la mia carta d’identità, compreso il mio santo Vasile. Adoro disegnare, molti li propongo io al mio tatuatore.
Siamo cristiani ortodossi, molto credenti, ho fatto il chierichetto. Mia madre ha visitato Medjuorje, Gerusalemme, Lourdes e ogni volta ha fatto benedire la foto della squadra in cui giocavo”.