2 Maggio 2020

Incertezza, indecisione, confusione: non è questa la strada che il calcio deve seguire

RIPARTENZA CALCIO / Incertezza mischiata con il timore. La concreta percezione di inferiorità dinanzi a un avversario gigante ma invisibile viene precariamente bilanciata da una fioca volontà di ripartire, spiegata attraverso il perché ma maldestramente dispiegata per quanto riguarda il come. Il calcio vuole, ma non sa e, a detta di una fetta dell’opinione pubblica, […]

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RIPARTENZA CALCIO / Incertezza mischiata con il timore. La concreta percezione di inferiorità dinanzi a un avversario gigante ma invisibile viene precariamente bilanciata da una fioca volontà di ripartire, spiegata attraverso il perché ma maldestramente dispiegata per quanto riguarda il come. Il calcio vuole, ma non sa e, a detta di una fetta dell’opinione pubblica, non può.

Maggio sarà il terzo mese di atipico bisogno di normalità. La riscoperta della passione passerà anche da questo nefasto periodo della nostra storia. Passione, dicevamo: in tutto e per tutto. Il calcio non fa eccezione. La valenza sociale di questo sport è nota e, a tal proposito, una delle argomentazioni a favore della ripresa dei campionati è proprio dettata dalla possibilità di fornire alla gente la prova tangibile che dopo la tempesta tornerà il sereno. Concetto, questo, inglobato nella negativa accezione di retorica avente l’unico fine di persuadere. Non è così. C’è altro da dire. La medievale teoria della retorica poneva quest’ultima accanto alla dialettica come arte liberale e, oltre alla persuasione, l’obiettivo era anche quello di dimostrare. Cosa? Che il calcio merita rispetto. È comprensibile che l’associazione tra sport e lavoro non sia automatica, ma non esiste alcuna legge, scritta e non, che imponga la condivisione di una nozione che, onestamente, pare miope e tendente al grigiore dettato da una convenzionalità che questo periodo ha dimostrato di dover accantonare.

Diversi professionisti, tra giornalisti, economisti, dirigenti vari ed eventuali, hanno chiesto ai numeri di supportare le proprie tesi. L’importanza dell’industria calcio, l’impatto socio-economico, i 4.7 miliardi di euro di fatturato totale (dato Bilancio Integrato FIGC), un numero di tesserati che, nella stagione 2017/2018, è arrivato a 1.355.993, senza contare chi non è tesserato ma è indirettamente dipendente di questo movimento. I numeri non parlano ma spiegano. 

Quanto appena detto, lungi dall’essere una premessa data la corposità, evidenzia uno dei grandi problemi del Calcio Italiano S.p.A., come definito dal prezioso Marco Bellinazzo, oltre che del cugino europeo e mondiale. La crepa in questione riguarda la governance.

Il calcio è un’azienda ed è come tale che va gestita. La governance attiene proprio all’organizzazione tecnica, economica, etica e umana. Servono conoscenze, competenze e risorse che, in un’economia dove la digitalizzazione ha demolito il concetto di confine e qualsiasi tipo di barriera, vanno condotte e ordinate attraverso il dialogo. Saper comunicare, oggi, supera qualsiasi beneficio materiale dettato dal diritto di proprietà, perché l’informazione è il più ingente strumento di fiducia prima e fidelizzazione poi. Saperlo utilizzare è il più importante dei vantaggi. Questo, però, genera anche responsabilità nei confronti di chi deve recepire. Nel caso del calcio parliamo della gente, macro-categoria in cui comprendiamo appassionati, stampa, lavoratori del settore (torniamo al discorso dei tesserati e dell’indotto). Questo onere non è passato. La governance del calcio ha dimostrato di non essere efficace ed efficiente.

Partiamo dal calcio italiano. La FIGC è, da Statuto, “associazione riconosciuta con personalità giuridica di diritto privato federata al Comitato Olimpico Nazionale Italiano (CONI)“. Sono noti gli screzi tra Giovanni Malagò e Gabriele Gravina, presidenti rispettivamente proprio di CONI e FIGC. Opinioni diverse per la diversa ampiezza della sfera di competenza. Lo sport nel primo caso, il calcio nel secondo. Uno generale, l’altro particolare ma, mentre Malagò cerca di dare eguale peso a fette di rilevanza palesemente differente (seppur, questo va precisato, non abbia mai chiuso la porta alla ripartenza), Gravina, legittimamente, cerca di mettere in risalto lo status di priorità sociale ed economica che spetta al calcio. Dalla FIGC sono arrivate le misure per ripartire, il famoso protocollo, bocciato dal Comitato tecnico scientifico oltre che dal Ministro dello Sport Vincenzo Spadafora, che nelle ultime settimane si è espresso a cadenza praticamente quotidiana sul tema, evitando però di prendere una posizione netta. Il protocollo prima citato sarà rivisto per correggere il difetto di applicabilità nelle serie inferiori. Ecco il primo di tanti punti interrogativi.

Altro argomento: la difficoltà nel controllare la capillarità di interessi particolari che possono ledere qualsiasi discorso sistemico. Sotto questo punto di vista Paolo Dal Pino per la Lega Serie A e Mauro Balata per la Serie B stanno cercando di mantenere le redini per evitare la deriva. Soffermandoci, per intuibili ragioni, sul presidente della Lega B, non possiamo che apprezzarne la prevalenza della sostanza sulla forma. Balata ha preferito concentrarsi sul lavoro più che su sterili comunicazioni di circostanza e, come confermato da diversi dirigenti, il suo modus operandi è stato più che apprezzato. Non finisce qui, perché anche la Serie C (che negli ultimi giorni pare abbia definitivamente accelerato verso la conclusione della stagione, nonostante le polemiche legate alla fatidica quarta promozione) merita una menzione. Per non parlare della Serie D, categoria destinata a doversi leccare dolorose ferite e che, parere personale, assieme alla Serie C meriterebbe maggiore attenzione anche da parte dei media per raccontarne le difficoltà.

Il groviglio di indecisione, proposte, opinioni e pareri in cui vive il calcio italiano, che spera in una direzione da poter seguire a stretto giro, in termini di complessità deve addirittura cedere il passo a questioni organizzative sovra-nazionali. Lo Statuto prima citato, all’articolo 1 comma 5 lett. a, evidenzia, come noto, che “la FIGC, le Leghe, le società, gli atleti, i tecnici, gli ufficiali di gara, i dirigenti e ogni altro soggetto dell’ordinamento federale sono tenuti a rispettare in ogni momento gli Statuti, i regolamenti, le direttive e le decisioni della FIFA e dell’UEFA“. Facile a dirsi, utopico a farsi. Non tanto per effettive decisioni prese nel recente passato, quanto per la difficoltà nel trovare un nesso tra ciò che si tenta (legittimamente) di fare su suolo nazionale e l’incertezza proveniente dall’alto. Le linee guida provenienti dall’UEFA parlano di chiusura entro il 3 agosto, mentre figure di spicco della FIFA arrivano addirittura a ipotizzare un (prossimo) stravolgimento di organizzazione delle stagioni sportive. Non è questa la sede per esprimere la propria opinione sulla singola questione organizzativa (che necessiterebbe di un approfondimento), in quanto l’obiettivo è altro: come si può pensare che gli organi competenti nazionali, nonostante l’autonomia tecnica, organizzativa e di gestione di cui all’articolo 2 del solito Statuto FIGC, possano lavorare “tranquillamente” (obbligatorie le virgolette per la complessità prima descritta) senza lasciarsi trascinare dalle polemiche alzate da e tra chi invece dovrebbe governare sapientemente un mondo, quello del calcio, così complicato? Il discorso va poi attenzionato in relazione alla suscettibilità generata nei fruitori del prodotto. A titolo di esempio sicuramente riduttivo, basti pensare alle dichiarazioni dei calciatori, che quotidianamente esprimono le proprie perplessità.

Nonostante i palesi e comprensibili problemi di qualsiasi natura per la capillarità del calcio, come sport e industria, bisogna pensare prima di agire. Un calcio pensante, rispettato per la propria influenza e importanza. Assimilando questa convinzione, la razionalità guiderà ogni azione.

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